L’ICT: dallo skill shortage al precariato
La ricerca “I misteri dei mestieri” svolta dall’ISIMM (Istituto per l’innovazione nei media e per la multimedialità) per conto del Cnel ha confermato, con la certificazione del dato statistico, una tendenza che ormai da tempo era percepibile nel mercato del lavoro dell’ICT .
La domanda di professioni legate al settore delle nuove tecnologie, in crescita tra il 1995 ed il 2000, dal 2001 è infatti in calo costante; se a questo si aggiunge che la domanda esistente è orientata prevalentemente verso professionalità a limitata qualificazione lo scenario si delinea con chiarezza in modo ancora più preoccupante.
Sono gli operatori di call center la figure più richiesta (+79%) mentre gli esperti del web (sia tecnici sia commerciali) crescono solo per un misero +4%. Alta è invece la mobilità; il 76% dei professionisti di settore ha cambiato lavoro negli ultimi anni e nel 31% dei casi a questo cambiamento è corrisposto anche un cambio di tipologia di attività svolta.
Finiti i tempi dello skill shortage dunque e lo scenario previsto per i prossimi anni non è meno “allarmante”; il 54,5% delle imprese che non operano nell’ICT pensa di mantenere lo stesso livello di personale informatico anche nei prossimi anni, mentre per il 18,2%, sempre nei prossimi 24 mesi, sarà necessario un qualche tipo di ridimensionamento della forza lavoro in questa area.
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13 luglio 2004 @ 10:15
Il 12/07 a Milano è stata presentata questa ricerca, svolta da Federcomin. Si riferisce sempre al settore ICT, tuttavia sembra che presenti uno scenario ben più roseo di quello della ricerca svolta per il CNEL, quantomeno l’utilizzo del lessico fa pensare a nuove opportunità e nuove criticità…al contrario di quella del CNEL che marca soprattutto sulle criticità.
13 luglio 2004 @ 12:25
Credo, al di la dei numeri e delle letture politiche, che nel nostro paese dobbiamo oggi affrontare un serio problema di “formazione”.
Formazione di base per quello che riguarda le competenze più semplici, e formazione manageriale di alto livello. Investire in questa formazione è indispensabile per passare da un uso strumentale dell’ICT come mero strumento di gestione operativa dell’azienda a funzione di sviluppo principale e profitto per l’impressa.
Questo è esattamente ciò che oggi NON stiamo facendo; le conseguenze le vedremo tra 4 o 5 anni.
15 luglio 2004 @ 09:53
D’accordissimo sul discorso formazione.
Ma chi dovremmo formare e su cosa?
La logica dev’essere top-down? Ovvero c’è qualcuno che si occupa di analizzare le carenze formative nazionali (o settoriali) e suggerire i percorsi formativi idonei a colmarle…
Oppure dev’essere dal basso, cioè devono essere le aziende che, innestando al loro interno dei percorsi di auto-analisi, diano una spinta alla formazione…soprattutto con un occhio al futuro (per dire quindi che escludiamo dalla formazione i corsi di inglese e i corsi di project management…ovvero gli unici corsi che mi è capitato di fare in azienda).
A me sembra che le aziende non abbiano la capacità critica (auto-analisi)…e che fargliela acquisire è probabilmente la strada più lunga; allo stesso tempo anche un ipotetico ente che faccia da consigliere super-partes sulle esigenze formative di una nazione intera (o almeno di un settore), avrebbe molte difficoltà ad influenzare effettivamente lo scenario.
Poi dobbiamo anche intenderci su cosa sia la formazione manageriale, perché anche in questo settore secondo me ci sono molte (troppe) scuole che fanno (nella composizione dei loro percorsi formativi) delle considerazioni meramente commerciali, di vendita, e solo alla fine (eventualmente) di efficacia dei loro percorsi formativi.
Detto in altri termini, venditori di percorsi formativi “fuffa” che servono solo a drenare i soldi delle aziende (o del professionista, nel caso in cui paga di tasca propria).
Ad ogni modo le conseguenze della mancanza di formazione a mio parere le stiamo vedendo oggi…
Mi piacerebbe sapere se, all’estero, esistono dei casi di implementazione della formazione in azienda che sono stati in grado di ridurre il gap, ridurre la ciclicità dell’economia (dico ridurre…perché l’economia è comunque ciclica) e quindi migliorare il mercato del lavoro (migliorare nel senso di facilitare la vita tanto dell’azienda quanto del lavoratore in fase di ricollocamento). Ovviamente escludendo gli USA, e spiego il perché: gli USA attraggono i cervelli dall’estero, quando non li possono formare, quindi in un certo senso non fanno testo. La loro capacità attrattiva è impensabile per paesi come l’Italia.
Mi pare che ci debba essere una pianificazione del discorso formativo, ma al tempo stesso non capisco (non so, complice inesperienza…difetto di gioventù), se un discorso del genere possa funzionare.
D’altronde anche la formazione è un fatto economico (cioè ricade sull’ecomomia), e l’economia pianificata (di stampo socialista, ma anche l’ultima versione basata sull’espansione monetaria by Greenspan) crea più squilibri che altro.
Forse dovremmo, pur lottando e pensando come migliorare la situazione, accettare (come si dovrebbe fare in economia) la ciclicità del mondo del lavoro.
Va beh…giusto un pò di riflessioni…un pò inconcludenti.
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