I cookie stanno morendo…evviva i SOs!
La ‘cookie crisis’, come ormai è definita in U.s.a nei forum più importanti, ha ormai raggiunto la fase in cui da una situazione di ‘panico’ (o di arrabbiatura, per chi non voleva divulgare questi dati…) si è passati alle possibili soluzioni.
Ricordiamo che qualche giorno fa, la JupiterResearch pubblicava dei dati dai quali emerge che circa la metà degli utenti internet elimina i cookie (o li fa eliminare automaticamente dai software anti-spyware etc) mensilmente; c’è anche un 12% degli utenti che li cancella (o li fa cancellare) quotidianamente.
Il dato mi sembra rilevante per molti aspetti, ma quello che più mi rende felice è che adesso gli editori hanno in mano delle armi in più per potersi opporre all’ordalia del Pay per action che imperversa purtroppo sempre di più, segno di un mercato ancora totalmente immaturo e dove chi dispone dell’audience ma non di un brand consolidato è quasi costretto a ‘vendere’ i propri spazi in revenue sharing.
Sono sempre stato contrario al revenue sharing per diversi motivi; il più importante è che secondo me annulla la dimensione imprenditoriale e ‘di rischio’ dell’acquisto di pubblicità. il principio secondo il quale ‘pago se va bene’ è profondamente unfair e si basa esclusivamente sulla posizione di forza che i buyer hanno nei confronti di chi vende pubblicità in Internet; nessuno si sogna di fare un discorso del genere a publoitalia o anche a una televisione locale (e tanto meno a chi produce volantini a risma…).
Il principio è fondamentalmente sbagliato (e direi sballato) perché tutto il rischio è dalla parte dell’editore e nessun rischio soffre invece chi acquista. L’editrore inoltre si accolla tutte le possibii carenze dell’acquirente. Il prezzi sono troppo alti? ne soffre l’editore…Il sito non è usabile? Ne soffre l’editore. Il marchio è talemente noto che una grande percentuale si è già iscritta ai suoi servizi? Ne soffre l’editore…Questo per quanto concerne il discorso ‘di merito’.
Poi c’è anche un discorso di ‘metodo’; come tracciare gli acquisti? a chi attribuire la commissione s sono più di uno i siti che hanno fatto conoscere un prodotto o un servizio via internet? CJ e TradeDoubler hanno due politiche diverse e opposte in questo caso, ma entrambe (come altre decine di società) utilizzano i cookie come sistema (apparentemente infallibile) di tracking.
La ricerca della Jupiter ha dimostrato che il sistema non è affatto infallibile e che quindi la società che acquista pubblicità in revenue sharing corrisponde all’editore solo una percentuale delle vendite che sono state effettivamente effettuate per suo ‘merito’…Io sono sempre stato favorevole al coupon elettronico; se acquisti insrendo un semplice codice numerico, ti sarà riconosciuto uno sconto o un’agevolazione; per quanto il vantaggio o il risparmio sia minimo, solo pochissimi vi rinunceranno e le vendite saranno tracciate molto più efficacemente.
Ho appena letto un articolo di clickz ; adesso sembra che la soluzione all’inaffidabilità dei cookie stia in un prodotto di Macromedia; si tratta dei SOs (Local Shared Objects) che possono essere ‘inseriti’ nella macchina di un utente internet semplicemente attraverso un Javascript introdotto nella pagina web.
Il principio è lo stesso dei cookie ‘classici’; il vantaggio è che questi SOs sono ancora per lo più sconosciuti e quindi non sono oggetto di cancellazione automatica o manuale. Quanto ci metteranno le società che intermediano il revenue sharing ad applicare questa nuva tecnologia? Aspetteranno che gli utenti conoscano molto bene questi cookie di nuova generazione cosicché perdano anch’essi di efficacia?
By the way, il sistema di tracking attraverso cookie è utilizzato anche da tutte quelle società che acquistano pubblicità in modalità PPC; il CPC è - purtroppo - spesso calcolato in base ai MWR (most wanted responses) che riescono a generare…Quale sarà l’effetto di questa inefficienza dei cookie su un mercato (quello italiano) in cui i CPC sono mostruosamente più bassi delle medie statunitensi?
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1 aprile 2005 @ 11:47
Sono costretto a dissentire anche perchè sono colpevole di avere introdotto in Italia le strategie pay per performance, con la prima campagna italiana in assoluto per Royal Insurance oggi nota come Direct Line e a cui hanno aderito la stragrande maggioranza delle concessionarie di pubblicità on line in Italia. Ero naturalmente consapevole che un pay performance puro non sarebbe stato accettato e quindi ho proposto di suddividere la campagna con una componente di brand ed una di direct response. Come in ogni cosa ci vuole sempre equilibrio. Se fossi un editore anche io rifiuterei una campagna remunerata esclusivamente sulle performance, ma occorre essere consapevoli che le percentuali di invenduto sono estremamente alte. La maggior parte dei portali erogano più impression di quante ne possano vendere, ecco perchè una campagna in pay per performance può essere accettabile, ma unicamente se costituisce un’ipotesi incrementale e non sostitutiva di campagna. Perchè come giustamente fai notare c’è comunque una componente di “branding” che deve essere riconosciuta.
1 aprile 2005 @ 13:54
Ciao Maurizio. Il problema è questo (IMO): Non riesco ad ammettere che ci sia dell’invenduto in Internet. Vuol dire che il mercato è ancora in stato maledettamente embrionale. L’estate scorsa sono stato in provincia di Ragusa. I contadini erano disperati perché andavano al mercato e gli pagavano i pomodori o le zucchine 10 centesimi al chilo che poi vendivano rivenduti a 3 Euro al mercato. E mi dicevano: “piuttosto che non prendere niente, accettiamo quello che ci danno”. Lo so, l’esempio può non essere il migliore da un punto di vista squisitamente storico-economico, ma dà l’idea di come si sentono le migliaia di ’site owner’ che non riescono a cavare un ragno dal proprio sito web, spesso fatto bene e con tanta passione. Non è solo una questione ‘tecnica’ di invenduto, quanto piuttosto di ignoranza verso lo strumento di internet che viene ritenuto l’ecce homo dell’advertising. Per fare un esempio: sui siti di mediaset che pubblicità è presente? Quella formnita da E-dintorni Network, un sito di minuscole dimensioni che rivende la pubblicità di un motore di ricerca ppc che certo non sembra essere in grande salute. E’ possibile che in Mediaset non ci sia nessuno che possa capire come sfruttare meglio i propri spazi pubblicitari? io sono nato con internet, non ho mai lavorato in un’agenzia pubblicitaria o per una grande società che pianifica periodicamente gli investimenti…Mi sai spiegare tu come la più grande concessionaria italiana rinunci in partenza a vendere gli spazi pubblicitari agli stessi clienti che comprano la pubblicità in TV? Forse perché internet non ha la stessa audience della televisione? Ma allora non ci dovrebbe essere invenduto…vorrei capire insieme a te…studi recentissimi hanno dimostrato che l’effetto brand è fortissimo anche in ’situazioni’ asettiche come quelle dei motori di ricerca. Il fatto che internet sia misurabile (posto che lo sia vermante, visti i recenti dati di Jupiter…)non vuole affatto dire che debba essergli riconosciuto solo ciò che è effettivamente stato misurato. …
1 aprile 2005 @ 14:16
Il porblema sta solo nell’offerta di spazi e nel regime di monopolio che ancora (per poco?) c’e’ nel campo televisivo.
Quello che voglio dire e’ che se uno vuol fare pubblicità in tv a livello nazionale deve per forza di cose affidarsi alla concessionaria esclusiva di mediaset o rai e quindi le leggi le fanno loro.
Altra cosa su internet che offre illimitati editori ed altrettanti illimitati concessionari. Ovvio dunque che al merchant viene dato quindi piu’ potere. Personalmente da qualche mese come editore non accetto piu’ pubblicità basata su performance in quanto non credo sia corretto scaricare sull’editore i rischi imprenditoriali e le tecniche di marketing del merchant. Se io espongo 200mila volte il tuo brand e non vendi un solo pezzo a me la cosa non tange minimamente… che e’ in sostanza quello che succede adesso in tv e che tutti danno per scontato… Solo che in tv i dati di “impressions” sono dati dall’auditel e durante gli spot, anche di un programma di successo, la gente cambia canale e non vede le “impressions”.
Su internet la pubblicità la vedi ma pubblicizzando mutande devi di fatto diventare un rivenditore e “vendere” mutande. Allucinante.
1 aprile 2005 @ 16:10
Ciao, su invito di Federico intervengo a questo post.
Come editore mi trovo spesso a combattere contro il revenue sharing, trovo profondamente ingiusto trasferire il rischio sul fornitore di visibilità.
Il fatto che internet permetta di avere un controllo totale della resa del proprio investimento pubblicitario alla fine sta giocando a nostro sfavore, non sapete quante volte mi sono sentito dire che 3.000 € spese per una pagina su una rivista sono giustificate (almeno così le concessionarie fanno credere, tanto non ci sono mezzi per dimostrare il contrario) mentre per internet bisogna ragionare sul revenue sharing in quanto è prassi affermare che “non rende” ….
Le domande che ci possiamo porre sono molteplici ….. come valutare la resa di una pagina di una rivista .. il valore di una campagna internet è dato solo dalle vendite dirette o anche dal brand generato …. ma le risposte degli inserzionisti sono sempre le stesse.
Avete mai sentito dire da un rivenditore che i tassi di conversione traffico/acquisti del proprio negozio sono bassi perchè ha un sito fatto male, ritarda nelle spedizioni o non è aggiornato … ma scommetto che lo avrete sentito dire che il traffico generato è di bassa qualità, insomma alla fine la colpa è sempre nostra.
Poi se aggiungiamo che gli strumenti messi a disposizione per conteggiare le vendite sono anche inaffidabili, penso che la situazione per noi editori non sia rosea e bisognerebbe fare fronte comune per sensibilizzare gli inserzionisti a spostare il rischio almeno in parte su di loro.
1 aprile 2005 @ 16:36
Ciao, capisco le difficoltà degli editori, ma sinceramente se la misurabilità dei risultati sul web permette agli inserzionisti di ottimizzare gli investimenti e le campagne non vedo alcun motivo dal loro punto di vista di non farlo. Poi possiamo ragionare in termini di branding, riconoscibilità del marchio ecc. ecc., ma se dovessi fare un investimento adesso sul web lo farei senza dubbio con un pay per performance. Poi magari non spenderei tutti quei soldi in pubblicità offline che non so quanto ritorno mi diano, ma dipende anche molto dal prodotto, dal target e da mille altre variabili.
Intendiamoci, quando vendevo gli spazi pubblicitari per un il sito in cui lavoravo non ero per nulla contento che mi proponessero Pay-Per-Click o Pay-Per-Lead… però è una potenzialità in più dell’advertising sul web e non un limite.
Il punto è far capire ai grandi inserzionisti, soprattutto quelli tradizionali, il valore della pubblicità sul web, il valore dei contatti generati, le potenzialità specifiche del mezzo e la diversa modalità di fruizione da parte degli utenti.
1 aprile 2005 @ 17:01
Ciao matteo. Anch’io se potessi comprerei in pay per performance…proprio perché è tutto a vantaggio del cliente e a svantaggio dell’editore. Il fatto poi che internet sia in assoluto più misurabile degli altri media mi trova d’accordo solo parzialmente. con i coupon (elettronici o cartacei) si può misurare benissimo anche con dei volantini, sms o con la pubblicità in TV. Certo in internet abbiamo centinaia di dati a disposizione; ma quando usiamo questi dati? Ho la vaga impressione che i siti che vanno oltre il cookie per tracciare l’acquisto si contino su una mano. just out of curiosity, snap.com è un motore di ricerca che vende pubblicità in PPA; sembra siano gli unici al mondo e immagino che lo rimarranno, dal momento che il loro EPC è di 3 centesimi di euro(i dati sono pubblicati orgogliosamente sul loro sito); circa 1/10 di quello che fanno overture e google; ecco quali sono i risultati concreti. Ci sono siti che spendono 50 centesimi su overture (dati pubblici anche qui) e che poi rendono meno di un centesimo a click in PPA. O stanno buttando i soldi nel PPC (cosa di cui dubito fortemente) oppure sanno di pagare un prezzo assolutamente ingiusto agli editori che non hanno la forza contrattuale per farsi pagare a ppc. Qui non si tratta di opportunità ma di cokmportamento commerciale completamente ‘unfair’. E’ vero che in affari tutto è permesso, ma almeno che non ci vengano a raccontare che il ppa è un’opportunità per guadagnare di più che con il ppc o con il ppi.
1 aprile 2005 @ 17:48
Permettetimi di essere realistico e di lasciare ogni giudizio di valore che avete espresso da parte perchè anche se condivisibile, fuorviante. La frammentazione delle audience è una realtà, ci sono più siti disponibili che clienti investitori. Questo accadrà presto anche con la televisione, infatti la transizione al digitale è per le concessionarie di pubblicità unicamente un gran mal di testa.
Quale è l’unica soluzione? La differenziazione delle revenues? Tf1 per esempio ha già differenziato così bene che almeno il 49% del suo fatturato è extra pubblicitario. Ho brutte notizie da dare, la pubblicità, come molti si sono già accorti sul web, non è sufficiente come modello di business e deve essere affiancata. Ecco perchè le campagne in pay per performance per quanto deprecabili dagli editori saranno inevitabili, ovviamente, lo ripeto, come business incrementale e non sostitutivo alla pubblicità. Quello dei nuovi modelli di pubblicità anche interattiva sarà il tema centrale del dibattito al Miptv di Cannes di quest’anno che avrà luogo a partire dal 10 aprile. Sono già diversi anni che sto lavorando sull’integrazione tra l’advertising e gli altri servizi a valore aggiunto. I casi sono quindi due. O si ha un modello di business originale ed internazionale (Google), oppure occorre ripensare completamente le modalità di vendere la pubblicità. Brutta aria per chi non si adegua. Non è bello quello che scrivo, purtroppo è vero
1 aprile 2005 @ 23:26
Sono d’accordo per quanto riguda la frammentazione; si tratta di un problema reale. Ci sono decine di migliaia di siti che in Italia sviluppano milioni di pagine viste al giorno (non so parlare ovviamente di impression…), ma che cosa c’entra con lo sfruttamento; un conto è dire: ci sono alcune agenzie pubblictarie (e concessionarie); queste agenzie non possono gestire tutti siti italiani; ergvo alcuni siti rimangono esclusi dalla pubblicità; di fatto non è questa la situazione; ci sono infatti società che sottendono decine di migliaia di affiliati e che quindi dovrebbero - nel loro ruolo d’intermediazione - sopperire, per lo meno per i siti che hanno ‘in gestione’ - a questa crisi dovuta alla frammentazione. Non è forse questo il ruole delle agenzie e soprattutto delle concessionarie? ma vediamo come accadono vermanete le cose; un mio ‘net-friend’ si è visto - nella giornata di oggi - arrivare una mail che diceva che non avrebbe pagato gli ultimi due mesi di pubblictà solo perché le vendite non erano andate bene come negli ultimi mesi dell’anno. Ha aggiunto che andrà per vie legali…Il problema non di frammentazione né di possibilità o meno di ‘tracking’…Il problema è di ignoranza da paretre di chi si avvicina al web marketing (se va bene) o di mala fede e di sfruttamento (se va male). Come vanno le cose lo so anch’io, anzi immaginiamoci una situazione reale. Partiamo dal presupposto fondamentale che ha scatenato questa situazione di dilagante corsa al revenue sharing: le società (in primis le grandi compagnie) pensano di potere fare ameno di internet; non possono fare a meno della TV; non possono fare a meno della radio; non possono fare a meno della cartellonictica; ma possono fare a meno delo Web. Quindi accade che sono gli editori a dovere andare a caccia di clienti (certo, accade anche per altri media)che si sentono in una posizione di assoluta superiorità. Queste società non parlano direttamente nemmeno con i grandi siti, ma passano attraverso tutti quei soggetti intermediari di cui abbiamo parlato. E che cosa fanno questi intermediari? Dal momento che sanno che siti micro, piccoli, ma anche medi non possono nemmeno parlare con i responsabili marketing di queste società (che hanno i budget da investire) si rivolgono loro proponendogli di ‘acquistare’ gli ’spazi invenduti’; nessuno chiede più l’esclusiva degli spazi pubblicitari ed è un segno di scarsa considerazione verso l’editore non certo sintomo di indipendenza. Comunque, le società intermediarie sanno come la pensano le società-clienti, sanno che il 99% dei siti non ha altra possibile fonte di guadagno se non quella di vendere spazi sulle proprie pagine; quindi dicono al responsabile del sito: “non possiamo vendere la tua pubblicità a impression perché non sappiamo qual è il profilo sociodemografico-psicografico etc del tuo sito; non possiamo venderla nemmenoa click perché non sappiamo se si tratta di click’buoni’; quindi ti rproponiamo di ‘venderla’ in revenue sharing. Prendere o lasciare.”. Ovviamente non c’è messun tipo di contrattazione per quanto riguarda la % di sharing né si può sindacare in merito ai sistemi di tracking. o così, o niente. Piuttosto che niente, la maggior parte dei responsabili di siti scelgono di accettare. Si tratta di programmi di PPA ‘puri’; nessuna ‘complementarietà’ come quella di cui parlava Maurizio; solo puro Pay Paer Action. Ma qual è la cosa vermente paradossale? Che questi stessi intermediari prendono dai clienti (anche per i programmi di PPA puro) un tanto a click; di questi introiti niente viene riconosciuto agli editori (chiamati normalmente ‘affiliati’). Questo non ha a chye fare con la frammentazione ma con lo sfruttamento e l’approfittamento. E poi non è finita qui; anche qualora l’editore guadagni dei soldi grazia al fortunato tracking di qualche vendita o di qualche subscription, non è detto che riceva i soldi e comunque quasi mai li riceve in tempo. I pagamenti sono spesso dati in una modalità che potremmo chiamare (anche se in maniera filologicamente precisa) ‘pro soluto’; se il cliente paga bene, altrimenti niente. Quindi non si ha un contatto diretto col cliente, ma si dipende direttamente dai loro pagamenti.
E perché questi intermediari si permettono di fare questo; non solo perché si è firmato un contratto in cui si accettano queste condizioni, ma soprattutto perché anche grandi cifre sono frammentate (questa volta sì) in decine di migliaia di ‘account’; e chi fa un decreto ingiuntivo per 300 euro o anche meno?
Qui siamo ancora però - come forse pensano molti - in una fase di analisi ‘morale’; va bene, diciamo che le cose stanno così e che non si può fare nulla per cercare di vendere quella che si chiama pubblicità… Però perché non rendere questi sitemi di tracking più efficienti? Perché non fare qualcosa per sorpassare il meccanismo ormai antiquato dei cookie? Se non c’è malafede, perché non inserire i coupon elettronici? Se ci sono dei sistemi migliori per tracciare le vendite, perché non adottarli? A mio parere per un semplice motivo: non è ritenuto necessario…
2 aprile 2005 @ 00:09
Non sono un professionista poiché laureato in legge ma di fatto mi occupo di web da 6 anni ed, esclusivamente, da 3 alla direzione di un portale nazionale sul mondo del Vino.
Da editore, non posso che manifestare una certa frustrazione nei confronti delle forme di advertising basate su revenue sharing. Anche se da merchant non credo ci sia nulla di meglio al momento per non rischiare nulla e massimizzare la resa dell’investimento pubblicitario.
L’inghippo però credo stia proprio qui.
A mio avviso il revenue sharing non dovrebbe rientrare nelle attività di advertising poiché - di fatto - non si tratta di pubblicità ma di rivendita.
Trovo abbastanza illogico, quindi, che questa forma di “advertising anomalo” abbia preso talmente piede da costituire, in alcuni portali, anche il 30 o 40% della forza disponibile.
Questo tipo di operazione - commerciale, più che di marketing - snatura il rapporto tra merchant ed editore vedendo quest’ultimo, in particolare, coinvolto in un gioco a senso unico dove chi guadagna, al 99% è solo il merchant. Mi spiego.
In una campagna basata su revenue sharing si ha un rapporto a senso unico dove l’editore vende il brand dell’inserzionista a costo zero e in cambio ottiene, forse, qualcosa di insignificante se rapportato all’impegno in pageviews del network banner.
Un’ultima considerazione.
A mio avviso un’altra cosa che contribuisce a rendere fallimentare qualsiasi forma di ppa o pps, è data dal fatto che i cookies, oltre ad essere inaffidabili, durano troppo poco. Per vedere qualche risultato apprezzabile, sono convinto che un cookie dovrebbe durare - virtualmente - almeno 6 mesi, meglio se 1 anno.
E’ certo, comunque, che allo stato attuale le forme di revenue sharing sono gratificanti quasi esclusivamente per i merchant, fatta eccezione - forse - per portali che fanno girare milioni di impression giornaliere.
Secondo me gli editori dovrebbero concentrarsi sul far capire al cliente che la brand awarness vale tanto su internet quanto su qualsiasi altro mezzo in grado di generarla. Su queste premesse, si potrebbe davvero rilanciare il mercato della pubblicità online, in parte piegato anche per colpa delle grandi concessionarie che letteralmente *svendono* impression e click.
2 aprile 2005 @ 18:47
Mi dispiace leggere quanto scrivete perchè purtroppo è tutto vero, ma occorre dire che il mercato della pubblicità on line è costellato da un buon numero di professionisti di grande esperienza, ma anche da tanti altri improvvisati, come succede in ogni mercato ancora non consolidato. A mio parere non bisognerebbe cercare di ostacolare le campagne in pay per performance, sarebbe come fare del proibizionismo, piuttosto sarebbe importante una autoregolamentazione ad esempio da parte dell’ACP Online. Quali modalità, quali posizioni, quale percentuale di budget ecc.
So bene che ci sono migliaia di piccoli siti, ma sono quelli gestiti dalle grandi concessionarie che contano per gli investitori pubblicitari e per i centri media una posizione unitaria come era già avvenuto per la autoregolamentazione per gli ad server di terze parti sarebbe utile. La vendità della pubblicità on line deve ancora fare un enorme passo avanti, e te lo dice qualcuno che fino ieri ha lavorato in un centro media specializzato in web advertising. Se le regole del gioco fossero più chiare, ci sarebbero probabilmente ancora gli abusi, ma forse sarebbero meno tollerati. La storia è sempre la stessa, non sono gli strumenti ad essere sbagliati, ma sono sempre le persone che fanno la differenza.
3 aprile 2005 @ 02:37
Io ho lavorato per anni sotto una piccola concessionaria di cui non faccio il nome.
Dopo qualche anno, stufo dell’imperversare dei banner che puntavano a dialer e, comunque, di entrate miserrime, ho deciso di provare a fare da solo : ho messo su un bell’adserver (in php, a quasi zero spese), ho implementato spazi adeguati ad ospitare un network banner professionale e mi sono lanciato nella vendita autonoma.
Ebbene, devo dire che è molto più redditizio per un portale come il mio - da 450.000 p/w mese circa, gestire le cose in questo modo che passare sotto una concessionaria. Solo adesso, dopo anni di lavoro ed esperienza sul campo, riesco a pianificare campagne pubblicitarie di una certa serietà ma molto, come dici tu (Goetz) sta nell aserietà delle persone. Io studio il profilo del cliente e cerco di fornire una campagna in linea sia con le possibilità che con le aspettative.
Per vendere pubblicità in questo modo, l’unica è puntare tutto sulla qualità dei contenuti e del tipo di informazione fornita. Profilare il target e curare il cliente passo passo per ogni minimo dettaglio.
Questo, credo, il lavoro che devono fare i medio piccoli come me.
Ciao
Filippo - TigullioVino.it
4 aprile 2005 @ 06:07
Purtroppo non si tratta affatto di dilettanti, sprovveduti o altro, si tratta di società che hanno bene in mente quale sia il loro modello di business. Ho preso comunque spunto da quello che mi dicevi (maurizio) relativamente al rischio di vendita degli spazio per la frammentazione che sempre più si sta manifestando anche nelle TV. Ho la fortuna di conoscere un apaio di persone che gestiscono delle piccole tv e ho girato la domanda a loro. Mi hanno confermato che il problema esiste. Alla mia domanda: ‘che fare’? hanno risposto entrambi che puntano ai servizi a pagamento. Perfetto. Potremmo fare così anche in internet? non credo proprio. La favola che la freelosophy sia morta insieme con lo sboom di qualche hanno fa non mi ha mai convinto. Ancora oggi sono pochissimi coloro che sono disposti a pagare per un servizio in internet. Si è disposti a pagare solo per tipici servizi b2b (come le visure camerali per esempio), ma non mai per un giornale online (mi guardo quello della concorrenza o ne faccio a meno…)per altri servizi tipicamente b2c. Inoltre (a parte il discorso dell’offerta) si tratterebbe sempre di e-commerce (anzi di meta-e-commerce)e - come già dicevo - non mi pare proprio che ci siano dei segnali positivi in proposito. By the way, ho rispolverato una ricerca che avevo letto qualche mese fa, frutto di un’indagine Eurisko-yahoo. Mi permetto di fare un C&P qui nel blog per chi non voglia scaricarsi tutto il ppt.
Alla domanda:
“In particolare, Lei pensa che in futuro potrebbe essere interessato a usare internet per…
ecco le risposte (in ordine di frequenza decrescente):
TROVARE IL PUNTO VENDITA/NEGOZIO PIù VICINO
RACCOGLIERE INFO E DETTAGLI SUI PRODOTTI/
SERVIZI PER L’ACQUISTO
TROVARE I PUNTI VENDITA/I NEGOZI CHE
VENDONO IL PRODOTTO CHE CERCA
CONFRONTARE I PREZZI
ESSERE SEMPRE AGGIORNATO SULLE NOVITA’
COMPARARE LE CARATTERISTICHE CONCRETE
DI PIU’ OFFERTE
INDIVIDUARE PRODOTTI/SERVIZI PER
SODDISFARE UN SUO BISOGNO/ ESIGENZA/ATTESA
SCOPRIRE NUOVI PRODOTTI/SERVIZI A
CUI NON AVEVA PENSATO
SCEGLIERE E VALUTARE CON CALMA E
TRANQUILLITA’ SENZA IL NEGOZIANTE CHE CONDIZIONA
TROVARE INFORMAZIONI UTILI PER CONTRATTARE
IL VENDITORE
THE END
Qualcuno ha visto: “acquistare e comprare servizi”???
io no.
Federico
p.s.
mi sembra di vendere congelatori in siberia…
4 aprile 2005 @ 10:35
devo confermare il mio punto di vista. Differenzia o muori. Occorre trovare nuove fonti di revenue. Non parlo solo di contenuti premium perchè come sapete su questi anche i big si stanno cimentando con fortune alterne.
Dobbiamo lavorare per costruire un valore differenziale che i “potenziali clienti” difficilmente riescono a trovare altrove. L’ho sempre sostenuto: le keywords, il pay per performance sono concetti semplici che hanno avuto immediato successo ma solo pochissimi potranno vivere di questo. L’unica soluzione è quindi l’integrazione tra differenti modelli di business attraverso la proposizione di un sistema di offerta coerente ed articolato. Questo è quello di cui mi sto occupando da oltre dieci anni, i nuovi formati pubblicitari e le nuove modalità di pianificazione pubblicitarie e l’integrazione tra pubblicità e servizi, ecco perché ho introdotto le campagne pay per performance sul web, che se ci pensate bene, sulla televisione è una “invenzione” di Publitalia. Su una cosa sono molto sicuro, la tigre è meglio cavalcarla che subirla. Turatevi il naso e fate in modo di “gestire” le campagne pay per performance e di non subirle. Intanto io sto già lavorando sulle televisioni digitali, pensate il digitale è un bel mal di testa per le concessionarie di pubblicità che avevano un gioellino in mano. Non solo la transizione al digitale non porterà più investimenti pubblicitari, ma costringerà a combattere per mantere l’esistente. Non abbiamo alternative altrimenti correremo il rischio di difendere il mercato delle carrozze nell’avvento dell’automobile. Mi ripeto, è tutto vero quello che dite, ma non cambia la dura realtà.
4 aprile 2005 @ 14:06
Maurizio, mi sembra che entrambi condividiamo l’analisi del reale e che ci siano differenze sulle possibili ‘reazioni’; tu dici di accettare e di ’sfruttare’ il ppa (vorrei capire come), io dico che invece non si deve farlo. Io non sono assolutamente un rivoluzionario o un illuso che non sa quali siano le forze in gioco. Penso però che internet - tra tutti i difetti che ha - abbia il pregio di di veicolare le informazioni molto velocemente. Sottolineando il fatto che non penso che le agenzie/società che propongono con il sorriso in faccia il PPA siano sprovvedute (proprio il contrario)ritengo che siano invece molto sprovveduti gli editori. spesso anche siti di medie dimensioni non sanno quello che regalano alle agenzie accettando campagne ppc, ma soprattutto l’ignoranza è da parte dei responsabili marketing delle grandi società; che la loro cultura in fatto di internet sia fortemente deficitaria è evidente dai loro siti (quasi sempre inutili e non interattivi) e dal posizionamento che hanno sui motori di ricerca (praticamente inesistente). Quindi, per essere concreti, penso che tutti noi che abbiamo la possibilità di parlare, dobbiamo fare sentire la nostra voce; non è detto che serva a qualcosa e che serva subito, ma se accettiamo supinamente la cosa penso che le cose potranno solo peggiorare. E’ vero anche mediaset quando ancorsa non si chiamava così, vendeva la pubblicità in PPA (anche questo non si chiamava così…), ma proprio perché il mercato era immaturo; idem è successo con le radio commerciali (che adesso fanno gola, mentre prima erano snobbate); ritengo quindi che il PPA sia destinato a sparire prima o poi (o a modificarsi radicalmente, offrendo agli editori anche qualche servizio in più invece delle sole ‘aleatorie’ commissioni…); quello che noi possiamo fare è fare conoscere come stanno le cose veramente: spiegare che i cookie non funzionano come vogliono farci credere (o non dovremmo dirlo?), spiegare che le campagne pubblicitarie in internet aumentano la brand awareness e compagnia bella e che quindi è sbagliato considerare il web come un luogo da ‘direct response’ e basta. La storia va avanti da sola, ma ci sono dei fattori (e la diffusione della conoscenza è uno di questi) che possono ‘accelerarla’. Non è detto che questo funzioni, ma certamente non sono disposto ad accettare supinamente il ppa e voglio fare in modo che più persone possibili ragionino su questo tema, diffondendo anche dati e statistiche in proposito. Tu dici ’sfruttare il ppa’, ma come è possibile? Attualmente il mercato è troppo squilibrato e ignorante. Dobbiamo dargli una raddrizzata. Cominciamo a non accettare più i programmi in PPA. Economicamente cambia poco o nulla e per lo meno avremo il vantaggio di non esere presi in giro e - forse - advertiser e agenzie cominceranno a riflettere meglio. By the way, la ricerca di Eurisko ha mostrato, anche se non lo ha detto chiaramente, che le campagne in internet sono svendute e supersontate; questo ha un effetto tutt’altro che positivo. Scontare a dismisura e farsi vedere affamati non può che fare apparire internet come uno strumento scadente, mentre non è affatto così. Infine, sempre dalla stessa ricerca, appare chiaro che le agenzie sono in cerca di grossi deal che si chiudono con un solo referente e che portano commissioni (e anche extrafee…); se gli uomini che dovrebbero decidere (quelli che le commessioni le danno, per intenderci) sapessero quanto è valido internet come strumento di advertising e non tanto come strumento di direct marketing, certamente potrebbero mettere pressione a chi poi la pubblicità la compra concretamente. Infine, penso che le agenzie debbano fare uno sforzo molto più grande per educare i clienti, per fargli capire cose che ancora non hanno capito. La tua voce è certamente più influente della mia. Knowledge is power. In questo caso il power degli editori dipende dalla knowledge delle agenzie e degli advertiser…
4 aprile 2005 @ 19:37
A proposito degli ultimi commenti, vorrei rispondere sia a Federico che a Maurizio.
A Maurizio dico che io mi sono impegnato in prima persona per cercare di ottimizzare il ppa. Ho stabilito accordi speicfici con tradedoubler per esempio e personalizzato un pezzo di sito (su oltre 7000 pagine) per la promozione di un ppa legato all’enogastronomia (mio target).
Ad oggi, a 200.000 impression regalate”, io non ho ancora generato 1 euro di entrata.
Mi impegno, ma la cosa NON funziona.
Quanto a Federico, circa i prezzi delle campagne e la “svendita” operata dalle concessionarie, non posso che essere d’accordo. Lo sono anche sul fatto che i dirigenti marketing di fiore di aziende sono spesso dei completi ignoranti (in senso latino, ci mancherebbe) e non conoscono assolutamente il mondo dell’advertising online.
Io credo che ci siano le concessionarie che vendono 1.000.000 di impression a 200 euro ma so anche che ci sono portali specializzati (come il mio) che lo stesso quantitativo lo propongono a migliaia di euro. Scelte. Del resto, dietro il portale che curo, c’è un lavoro massacrante che va remunerato, il prezzo è quello.
In fondo, è come se uno dovesse scegliere se fare pubblicità su una rete locale o su italia uno. Sa già che su italia uno gli costerà di più.
La qualità dei servizi e dei contenuti, ben può andare - anche in rete - di pari passo con l’aumento dei costi e dei prezzi per l’advertising. Il fatto è che nessuno oggi come oggi è “fuori mercato” perché nessuno fa una mazza per regolamentarlo a dovere questo mercato.
Ciao, Fil
5 aprile 2005 @ 08:41
Caro Filippo,
nuovamente hai ragione ma il mercato della pubblicità on line ha delle caratteristiche che non giocano a tuo favore. Raramente i buyer aziendali e centri media guardano o sanno valutare il contatto, ecco perchè siti come il tuo o come diversi altri di cui sono stato consulente negli anni, soffrono perchè hanno spesso un pubblico molto specifico ma limitato numericamente. Le aziende dicono spesso di essere alla ricerca di un pubblico targetizzato maalla realtà dei fatti poi non sono disposti a pagare per questo. Per quanto concerne le campagne pay per performance la mia esperienza mi insegna che funzionano SOLO quando c’è massima coerenza tra contenuti e messaggio pubblicitario. La legge dei grandi numeri non funziona proprio. L’affiliation per come è nata (e credo di essere uno dei primi in Italia che se ne è occupato) funziona più per chi vuole un reddito incrementale dal proprio sito, ma raramente come fonte primaria di guadagno, ecco perché continuo ad insistere nella differenziazione delle revenue. Occorre che chi propone campagne pay per performance sia molto onesto perchè nella vita come negli affari affinchè un matrimonio/convivenza funzioni occorre che siano felici tutti. Nuovamente mi ripeto, non è lo strumento a non funzionare, dipende dall’uso che se ne fa. Ovviamente dobbiamo fare tutti fronte compatto di fronte agli abusi e su chi si approfitta delle situazioni, non durerà, spero.
5 aprile 2005 @ 17:14
Incollo la mail che ho inviato oggi in copia al direttore marketing esperya e a Tradedoubler.
Spett.le Direzione Marketing Esperya,
e in copia, per conoscenza a :
Tradedoubler Italia
siamo editori, con il portale TigullioVino.it, del programma Esperya,
per il quale una gentilissima collaboratrice di TD ha provveduto ad
implementare un ottima personalizzazione con il nostro layout.
Da parte nostra, abbiamo dato massima visibilità al vostro marchio
attraverso una campagna ad impression da 120*240 pixel sulla nostra
colonna di destra su oltre 6.000 pagine web.
Dall’esame degli ultimi 2 mesi di campagna, si può evincere
quanto segue :
(….)
Totale 245.423 0 347 0 2 7,35 105,01
(….)
Per circa 250.000 impression banner generate dal nostro portale
per il vostro marchio e per il ragguardevole numero di circa 350 clic
generati verso il vostro sito, la nostra testata ha guadagnato la
risibile cifra di 7,35 euro.
Al di là del fatto che pare assurdo che 350 clic mirati generino
un’unica vendita, il problema sta senz’altro nel tipo di campagna
basata su revenue sharing, la quale com’è noto - tra gli editori,
più che tra i merchant e gli advertiser - ha grandi lacune dal
punto di vista tecnico (una per tutte la precarietà dei cookies).
Se si tiene conto che i cookies preposti al tracciamento delle vendite
costituiscono un sistema assolutamente labile e fallibile per il
tracciamento delle vendite stesse (essi vengono infatti cancellati dall’utente
ben più di frequente che alla data di scadenza imposta), è facile intuire
come il numero di vendite, da un lato, e di revenues, dall’altro, sia assolutamente NON indicativo di quanto
realmente ha generato la campagna.
Ora, visto che al momento non esistono metodi migliori per il
tracciamento delle vendite e che, inoltre, non è certo possibile
trascurare l’enorme impatto di brand awarness che questo tipo
di campagne generano per il merchant, riteniamo che sarebbe
opportuno, per chi come noi investe centinaia di migliaia di
impression ogni mese nella promozione di queste campagne,
se non ottenere provvigioni sicure e tracciate in modo meno
fallibile, almeno un fisso mensile, a ristoro - almeno - della
diffusione del marchio e dell’occupazione dello spazio.
Una campagna da 200.000 impression sul nostro netowrk
costerebbe intorno ai 2000 euro. Con Esperya ne abbiamo
guadagnati 7.
Credo che una via di mezzo tra le due cose - per esempio
un fisso mensile all’editore di qualche centinaio di euro -
potrebbe essere di reciproca soddisfazione e permettere
la prosecuzione dell’esposizione, non solo del vostro marchio
ma di tutte le campagne in modalità revenue sharing.
Per Tradedoubler, rammento soltanto che la loro forza sono
gli editori e che senza di essi non avrebbero alcuna forza commerciale.
Il malcontento, tra gli editori stessi, è in forte aumento verso questo
genere di pubblicità.
In attesa di un vostro gradito riscontro, cogliamo l’occasione
per inviare i nostri migliori saluti.
Dr. Filippo Ronco
Direttore TigullioVino.it
5 aprile 2005 @ 17:22
La posizione di Filippo è assolutamente condivisibile. E’ il meccanismo di tracking che sembra non funzionare per le ragioni così ben argomentate. Ci sono ipotesi alternative, pensate a Mutui on line che si pone come intermediario per mutui offerti da banche partner del servizio. Mutui on line non si limita ad inviare il contatto passivamente alla banca partner ma segue tutto il processo.
Un’altra proposta è quella di non fare campagne in puro pay per sale, ma come giustamente fa notare Filippo e come facevo io optare per un modello misto es. x per ogni esposizione, x per ogni lead generata ed x per ogni vendita. Il meccanismo come è attualmente è totalmente squilibrato ne convegno.
5 aprile 2005 @ 18:09
ciao Filippo. il problema che tu riporti è reale e condivisibile, ma credi veramente che un’azienda (per di più internazionale e di grandi dimensioni) possa decidere di cambiare le proprie politiche commerciali per “giustizia” andando contro all propria convenzienza? detto sinceramente se io fossi uno di TD o di Esperya ti risponderei “il nostro programma è questo, se non hai ritorno commerciale non affiliarti”, e sono certo che faresti lo stesso anche tu.
il problema ahimè è macro, a livello di mercato, e per questo di difficilissima soluzione. e ovviamente a farne le spese maggiormanete sono i pesci più piccoli…
5 aprile 2005 @ 19:56
Mi hai ben catalogato tra i pesci piccoli, non rientro certo tra i grandi portali generalisti, ma ti assicuro che nel panorama web italiano del settore enogastronomico, non sono molti i siti che fanno 450.000 pw/mese.
Al di là di questo - che già a mio avviso è sufficiente per destare l’attenzione di un netowrk come TD, che non può contare su molti altri affiliati di questo livello e target - credo che far comunque sentire la propria voce sia sempre una cosa doverosa.
Non pensare che io abbia anche solo per un istante pensato che TD avrebbe cambiato le proprie strategie per la mia lettera ma devono pur sempre rendersi conto che senza editori chiudono. Francamente, fossi TD, prima di liquidarmi con una risposta come quella da te riportata - certo, plausibilissima - rifletterei sul numero di impression targetizzate che stanno sfruttando a costo zero e valuterei se è proprio il caso di gettarle nella pattumiera.
Certo, se nessuno alza mai la voce ognuno continua a fare i propri porci comodi.
Resto dell’idea comunque, che gli editori debbano cercare sempre di più, di vendere facendo capire se dietro il banner nudo e crudo c’è un lavoro che lo può valorizzare o meno a livello di contenuti, grafica, notorietà, credibilità, ecc..
Ciao
Fil
5 aprile 2005 @ 20:01
Dimenticavo.
A proposito di Esperya. Ti endi conto che un sito del genere non ha un responsabile marketing ma un factotum (ci ho parlato oggi al telefono) che fa il commerciale, il marketing e tutto il resto..e che non ha la minima idea di cosa sia un’impression ?
Vedi, per poter vendere al prezzo giusto, è fondamentale che chi compra abbia idea del valore. La persona con cui ho parlato - dirigenza - non ha idea di cosa sia un’impression, di come si calcolino i click e di come funzionino realmente i cookies..
E’ anche per questo che credo opportuno farsi sentire. C’è bisogno di informare e spesso, la critica costruttiva svolge anche questo ruolo.
Ciao
Fil
6 aprile 2005 @ 09:11
Filippo, il catalogarti tra i pesci piccoli non voleva assolutamente essere offensivo, ma semplicemente dire che non sei uno dei grandi portali ma un sito “di nicchia” con un target specifico (il che da un certo punto di vista dovrebbe proprio essere il tuo punto di forza). La forza di operatori come TD sta nel network e non nei singoli siti e quindi non cambieranno mai politica a causa (o per merito) di un singolo sito, seppure importante. Non dico che sia giusto, intendiamoci, dico solo che è così e che lo sarà finchè il mercato non cambierà o diventino la maggioranza i siti che rifiutano condizioni svantaggiose e decidono di rischiare per valorizzare il proprio “prodotto”. Sul fatto che Esperya non abbia un resp. marketing con adeguate competenze web è assurdo e sono d’accordo sul fatto che questo renda ancor più difficoltosa la situazione
6 aprile 2005 @ 12:38
Mi associo alle considerazioni di Fillipo sui sistemi di tracciamento basati su cookie sulle tematiche relative alle differenze di revenue tra cpc e impression. Peraltro il problema che evidenzio io invece e’ ancora piu’ profondo e legato al fatto che si, tradedoubler puo’ effettivamente “RICONOSCERE” i cpc.. e questo e’ l’unico riconoscimento certo che puo’ asserire. Per quanto riguarda vendite, e purtroppo in questa sede non posso fare nomi; esistono varie realta’, anche affiliate a tradedoubler che attuano politiche molto poco oneste rispetto al riconoscimento di vendite. Vado ad elencarvele:
A) Tracciamento delle vendite. Il merchant sulle cui macchine di erogazione deve installare degli script per il tracciamento delle vendite a fine carrello di acquisto, va ad installare due server, uno su cui gira il sistema di tracciamento e uno su cui non gira. Raggiunto un totale prefissato di vendite di giornata, switcha il flusso di acquisti su un altro server in maniera tale da non dover piu’ riconoscere vendite.
B) il merchant lo stesso meccanismo puo’ porlo in atto con sistemi di balancing ovvero che alternativamente passino l’acquisto sul server con o senza tracciamento, ma solitamente il primo sistema e’ il piu’ utilizzato.
C) il merchant mette in atto politiche di webmarketing sul carrello di acquisto atte a spingere l’utente approdato da sistemi di affiliazione a cercare codici di sconto o promozione. A tal fine utilizzando i piu’ noti motori di ricerca cadra’ nella rete di siti ad hoc costruiti dal merchant stesso che caricati dei tracciamenti di un proprio programma da affiliato (eh si esiste anche questo) tranciano i cookie rilasciati dall’affiliato originario. il sistema vale ovviamente sia su cpc che su cpl..
morale.. chi ci rimette e’ il sito verticale. Nonostante ripetuti solleciti da parte mia come affiliato pubblico a tradedoubler non ho mai ricevuto risposta, ne ufficiale ne ufficiosa. Ho dimostrato piu’ volte le attivita’ in oggetto (ne ho documentazione se volete) ma il concetto non e’ tanto il fatto che td o chi per esso (capita anche con zanox) non prenda provvedimenti (loro guadagnano lo stesso.. o perdono un poco), ma il fatto che il tanto agognato revenue share per mille motivi di questo tipo rischia di non decollare mai se non verranno attuate logiche di mktg mix piu’ idonee. Peraltro proprio tradedoubler, che fa largo uso di big affiliate legati ai circuiti di spyware (180 solutions, gator etc) si ritrova immancabilmente con buona fetta di traffico che viene tranciata dai sistemi antispyware che riconoscono i tracking di td come facenti parte dei sistemi di spyware. Non male.. eh. Spero che prendano provvedimenti, ma i sistemi qui riportati legati ai SOS sono gia’ sull’orlo del fallimento.. l’unica via e’ l’uso dell’id macchina ma e’ una via molto intrusiva sull’utente. ;)
6 aprile 2005 @ 15:41
anche alla luce di quanto dici tu, thomas, io faccio fatica a capire perchè un affiliato insiste con i programmi di affiliazione invece di mollare tutto e lasciar fare adsense…
6 aprile 2005 @ 16:00
forse che adsense paghi in $?
non so, so che se il sito sa essere verticale e rende e il merchant non fa trucchi, il programma di affiliazione riesce a darti un controvalore ben piu’ elevato.
alla luce però delle frodi in atto da parte dei merchant sui programmi di affiliazione italiani, alla luce dei giochi di storni di vendite (mi era sfuggito questo particolare insignificante.. perche’ alla fine della fiera e’ il merchant che dichiara se le vendite tracciate sono o no reali.. e quindi volendo una stornatina puo’ anche darla).. e soprattutto alla luce dei software anti-spyware direi che forse hai ragione tu. ma basterebbe anche un cpc con dei valori allineati sugli altri mercati.
6 aprile 2005 @ 18:59
beh in effetti adsense si sta diffondcendo molto e ci sono anche altri programmi. ritengo che però, sempre a proposito di correttezza, sia profondamente scorretto non dichiarare
1) quanto spende il merchant in CPC
2) quanl è la % che va all’editore.
di fatto la politica di google è quella dell’assoluta mancanza di trasparenza (che uno vive anche quando compra gli adwords). Il principio dell’asta è che le parti sappiano quanto stanno pagando i propri competitor e mi sembra che non sia affatto il caso di google. C’è poi anche un problema di attinenza. Spesse volte, google non è affatto ingrado di ‘capire’ quale sia l’argomento della pagina i cui sono collocati gli adsense e quindi io che gestisco un sito di web marketing mi trovo spesso un adsense che mi invita a verificare la profondità dell’oceno pacifico. By the way, con gli adsense non è difficile fare pubblicità a dei propri concorrenti; anzi è la cosa che capita più frequentemente. Infine, mi sembra che arrenderci al googlepolio sia penoso. cmq - come ho già scritto - sui siti mediaset è presente la pubblicità adwords style di e-dinotrni che rivende e-spotting. E’detto tutto. Facciamo ridere i polli.
6 aprile 2005 @ 19:04
Scusate ma occorre fare una distinzione. Da una parte abbiamo l’affiliation che come è solitamente concepita vede un organizzazione come Tradedoubler, Commission Junction ecc che si pone come intermediario tra un merchant ed una pluralità di siti di diverse dimensioni che solitamente non hanno da tale attività delle revenue primarie. Ecco perchè conta in questo caso la legge dei grandi numeri e non la tipologia di utenti che possono anche non essere qualificati perché ciò che conta è l’azione che essi fanno (registrazione, download di un coupon o un acquisto.) L’affiliation prevede infatti diverse modalità di remunerazione in pay per click, per lead o per sale, sebbene il pay per lead è sempre più raro. Diverso è il caso di una campagna pubblicitaria in pay per performance, dove abbiamo sempre un intermediario che questa volta può essere un centro media specializzato oppure una web agency ma che acquista degli spazi pubblicitari che remunera parzialmente in funzione delle performance. Dall’altra parte abbiamo un sito, un portale che vive di pubblicità e che solitamente ha un pubblico più qualificato. In questo secondo caso si parla di campagne miste in cui vi è una componente di branding e una di direct response, quello che gli americani definiscono il brand response. E’ evidente che in questo secondo caso, che è quello che citavo io, la componente di brand nella campagna c’è e quindi deve essere riconosciuta. Abbiamo poi il caso di società specializzate nelle campagne in pay per click come Google, Overture ecc ed infine alcune società di Search Engine Marketing che decidono di vendere il loro servizio di ottimizzazione in funzione delle posizioni raggiunte oppure talvolta in funzioni di click. Ecco perchè abbiamo di fronte un mondo variegato e non possiamo affrontare l’argomento pay per performance se non facciamo le distinzioni del caso. In questa discussione non stiamo parlando tutti della stessa cosa ecco perchè non ci troviamo
6 aprile 2005 @ 19:53
a me sembrava che tutti stessimo parlando del pay per action di siti come TD, CJ e Zanox. Il nocciolo è che la loro policy è unfair (perché fondata su false premesse, come quella della tracciabilità dei cookie). Poi tu dici di usare i programmi PPA come ‘riempitivo’ o comunque complementariamente ad altre forme di sfruttamento delle proprie pagine (cfhe sia pubblicità o altro). Io dico che putroppo a questi siti si avvicinano (ingenuamente) responsabili di siti piccoli e medio piccoli (nella grande maggiornanz) che non trovano altri che li ascoltino. La mia terapia è dire: non accettate più i ppa, nemmeno come riempitivo e diffondete i dati in merito allo scarsaissimo funzionamento dei sitemi di tracking. Per quanti anni dobbiamo pagare per i pricing assurdi in epoca bolla speculativa (100 lire a impression…). Anzi guarda, sono favorevole a un ritorno al pay per impression…In ogni caso, visto che i cookie sono destinati a ‘morire’ come strumento di tracking, è molto probabile che saranno gli stessi responsabili di siti come TD etc ad addivenire a buoni consigli e a introdurre per lo meno dei ppc. e che siano dei ppc decenti; siamo in un mercato di polli è vero, ma che almeno i bid siano poco sotto al cpc medio che si paga su un motore di ricerca. Il ppc non basta. Deve4 esserci un prezzo corretto, i.e. non dieci volte inferiore a quello che si paga nei mercati ad asta. Tu sai dirmi quanto si paga per ‘impression’ in TV? mi ha sempre incuriosito saperlo…
6 aprile 2005 @ 21:23
Per favore non affrontiamo l’argomento tv, abbiamo fatto tanta fatica negli anni a spiegare che internet non è la tv e non mi sembra che sia il caso di fare paragoni improponibili. Tornando al nostro discorso, un conto è la legge della domanda e dell’offerta nel mercato della pubblicità e le sue dinamiche un altro sono i meccanismi di tracking e le operazioni ai limiti della legalità a cui si accennava. Riguardo ai prezzi è utile la mia distinzione, perché è evidente che se il traffico non è limitato verrà sempre venduto ad un tot al chilo che piaccia o no. Nessuno impone l’affiliation che ha delle regole proprie ma la dura realtà è che se devo comprare ad impression allora voglio poter scegliere il profilo che desidero e ho solo l’imbarazzo della scelta, se invece vi affiliate ad un programma ne dovete accettare le regole.
Lo ripeto di sola pubblicità non si campa più. Restano invece validi i discorsi sul tracciamento che condivido.
6 aprile 2005 @ 22:22
Scusate intendevo nel mio messaggio precedente se il traffico è limitato
6 aprile 2005 @ 22:46
Maurizio non so se ti ricordi di un certo Lyle Bowlin; tanti anni fa aprì un mall in cui vendeva libri. Ebbe una certa notorietà perché riusciva a essere ‘competitivo’ con Amazon. Tutti ne parlarono e ben presto decise di ‘fare le cose sul serio’. Dopo un anno la società fallì. Penso che in Internet ci sia una specie di teorema: se sei piccolissimo, allora sopravvivi e magari guadagni anche (one man company). Se sei grande e hai alle spalle grandi gruppi allora guadagni o comunque hai chi ti dà soldi per non fallire. Se stai nel mezzo sei destinato a fare la fame o a fallire a breve. Tutto quello che si è sempre detto sulla net economy: che ci sono bassissime barriere all’ingresso, che i piccoli hanno le stesse possibilità dei grandi etc etc: sono solo balle. Per via del mio lavoro, ho incontrato quasi tutti i responsabili dei più grossi siti italiani (che stanno benissimo e non hanno alcuna preoccupazione) sia proprietari di siti di medie dimensioni sia persone che da sole portano avanti un sito. Nessuno dei siti di medie dimensioni naviga in buone acque. sono costantemente DISPERATI per usare una parola forte, ma vera. Contestualmente, quelli che hanno un piccolo sito e che lo gestiscono in proprio, normalmente si pagano le spese con un altro lavoro…’vero’. Conosco decine di webmaster (si licet…) che sono dovuti andare a fare i promotori finanziari o gli operai (gente in gamba, non personaggi che non sanno che cosa sia un’impression).
Questo c’entra poco con il discorso che abbiamo fatto sinora e forse mi si dirà che la ‘crisi’ c’è in tutta l’economia italiana…Chi apre oggi un’attività nel web senza avere alle spalle dei gruppi o delle societò disposte a perdere soldi per anni (e forse per sempre)… non sa quello che fa.
Ah, tradedoubler ha appena comunicato che nel 2004 ha fatto + 130% di fatturato e percentuali simili di MOL e di EBITDA.
D’altronde, anche nel ‘29 in U.s.a. c’era chi andava bene….
Scusate la scarsa profondità di questo commento, ma sono incazzato nero.
6 aprile 2005 @ 23:08
Be Federico, pensa che come responsabile sviluppo di un centro media on line ho organizzato un incontro a Milano ad alto livello per lanciare in Italia proprio Trade Doubler e la società per cui lavoravo non ci ha creduto fino in fondo e l’accordo non è andato in porto, così come avevo proposto di occuparci di Search Engine Marketing nel 1999 quando solo Mauro Lupi ci credeva e che ne ha fatto un cavallo di battaglia di Admaiora. So cosa vuol dire cercare di innovare e la fatica che si fa a diffondere nuovi modelli. Ma una certa idea me la sono fatta. Conosco i mille problemi che i siti di medie dimensioni hanno, perché ho lavorato con molti di essi. Su una cosa sono assolutamente sempre stato sicuro. La competizione è per l’attenzione e l’attenzione è un gioco a somma zero. Chi vince prende tutto. C’è già poco spazio per il numero due, figuriamoci per il numero 1.123 C’è poco da arrabbiarsi in futuro sarà sempre peggio da questo punto di vista. Mettiamoci il cuore in pace.
6 aprile 2005 @ 23:51
Su quello siamo d’accordo. C’è spazio per Armstrong ma non per Aldrin. Il fatto grave però è che il niche marketing in usa funziona. Qui si apri un bellissimo negozio online di orologi, di palloni da calcio 12o di qualsiasi altra cosa: fai la fame. Fai la fame anche se sei in gamba… è questo che mi fa incazzare, non la struggle for life. Quella la accetto. Non accetto che non ci siano le possibilità per chi è in gamba. c’è una bella differenza rispetto a ’secundum non datur…’.
7 aprile 2005 @ 08:13
beh, Federico, è questione di numeri. se hai 150 milioni di persone online è più probabile trovare un pirla che voglia comprare un pallone da calcio su internet…
7 aprile 2005 @ 12:38
Dopo essere caduto dalla sedia dopo aver letto il post di Thomas Grones, non posso che ringraziare Federico Riva per avermi segnalato un Blog splendido dal quale spero di imparare molto per il mio lavoro.
Piccole considerazioni in tema con gli ultimi commenti di Federico e Maurizio :
- AdSense
- Sopravvivenza dei piccoli
- Contenuti : qualità e frequenza degli aggiornamenti
Su AdSense, non posso che esprimere un commento positivo. Sia pur con le lacune di trasparenza che ha segnalato Federico, a mio avviso è la “concessionaria” che rende di più ad un editore in termini di rapporto esposizioni / guadagni. Il bid mi pare calato rispetto al primo periodo e la pertinenza degli ad sulle pagine è senz’altro migliorabile.
Fanno già molto comunque.
Circa la sopravvivenza dei piccoli “Disperati”, devo dire che la mia esperienza è stata inversa. Come accennavo questa mattina a Federico su ICQ (23896333), da praticante avvocato ormai quasi avvocato (terminati i 2 anni di pratica), ho deciso di dedicarmi esclusivamente alla gestione del portale che - comunque - risucchiava ormai da 4 anni 10/12 ore giornaliere del mio tempo, oltre alle 6/7 di lavoro comune. Era impossibile continuare così ed ho scelto la strada impervia, quella che però mi da senz’altro numerose soddisfazioni.
Se qualcuno ha voglia di fare un giro sul mio sito, si renderà conto che non campo solo di pubblicità. In questi 5 anni le ho provate tutte, affiancando all’advertising puro, forme di promozione e servizi a pagamento di tipo diverso (registrazione a pagamento nel portale con vari tipi di piani d’inserimento, attivazione di un club con tanto di tessera plastificata, promozione prodotti e-commerce, organizzazione eventi…a proposito il prossimo è il 29 giugno e siete tutti invitati : http://meeting.tigulliovino.it).
Insomma, mi do da fare e non è per nulla facile.
A questo lavoro dietro le quinte, tuttavia, basato su un’offerta coerente di servizi ed un costante rapporto col cliente, va IMHO affiancata la massima attenzione nella produzione costante di contenuti aggiornati e di qualità.
Per esempio, mi sono creato una nicchia nella nicchia, attraverso un servizio gratuito di diffusione di iniziative enogastronomiche italiane.
E’ un servizio che apparentemente non mi da 1 euro di guadagno ma che, diversamente, fornisce continua linfa alle iscrizioni newsletter (ancor oggi, se ben seguita, la prima forza di un sito a mio avviso), genera registrazioni e contatti, crea flusso di visibilità, impression, ecc.
Questa è solo una delle molte nicchie curate ed aggiunte negli anni nel sito.
Tutto questo, per dire che la qualità del servizio, del contenuto sono valori non aggiunti ma essenziali per poter fare advertising di qualità e pretendere soldi dai clienti.
Il problema, come accennato molto più sotto in altro commento, è che bisogna istruire i merchant se non lo fanno da soli.
Ciao
Fil
8 aprile 2005 @ 09:49
“dopo essere caduto dalla sedia dopo aver letto il post di Thomas Grones”
cosa ti ha fatto cascare dalla sedia? :)
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