Le persone con le quali ho sviluppato contatti professionali negli ultimi anni sanno che uno dei miei principali ambiti di interesse sono le nuove tecnologie della comunicazione applicate al marketing (o anche viceversa). Si passa quindi per internet, il mobile, la tv digitale interattiva e così via.
In questi giorni, complice il fatto che lavoro in prossimità di via Tortona - luogo dove, in quella che è stata chiamata Zona Tortona, si sviluppano buona parte degli eventi del Fuori Salone ‘05 - e complice un mio “antico” (ma sempre vivo) interesse per il design, ho elaborato alcune riflessioni su un tema per me inusuale, il Fashion Marketing, o meglio: del marketing applicato ai prodotti dello stile e del design (made in Italy o meno che siano).


Durante una lezione del master in marketing che ho appena conseguito, dedicata al Fashion Marketing, un docente ha chiesto a noi studenti cos’è per noi un prodotto “fashion” o di design; stimolato dalla domanda ho pensato, e proposto al docente, una risposta piuttosto criptica: un prodotto dotato di valore percettivo preponderante rispetto al valore dato dalla sua funzione. Con questa mia “uscita” intendevo puntare l’attenzione sugli aspetti immateriali/percettivi dei prodotti la cui essenza si basa fondamentalmente sullo stile e sul design.
E’ oltremodo vero che ciò non vale più solo per i prodotti “fashion”; tutti i prodotti, anche quelli comuni, sono ormai investiti da un valore percettivo, ovvero da una sovrastruttura slegata dalla funzione del prodotto stesso e più legata invece ai valori delle sfere emotiva e sociale.

Come ogni professionista del marketing sa, una delle componenti (dette leve) del marketing è il prezzo di sell-out, quello a cui il prodotto viene proposto al cliente finale. Il prezzo di sell-out, la cui entità si riflette sulla redditività del prodotto (quindi sul conto economico di prodotto), è stabilito sulla base di diversi fattori, uno dei quali è il livello di deterrenza all’acquisto. Il dilemma, nel caso di prodotti caatterizzati, come prima detto, da un alto valore percettivo è: quanto la componente immateriale di un prodotto, legata alla sfera emotiva, è monetizzabile (trasferibile nel prezzo di sell-out) senza fare da deterrente all’acquisto.

Personalmente, in quanto particolarmente affascinato dal design, ma senza esserne vittima, spesso (sempre?) faccio fatica a giustificare il prezzo di sell-out che alcuni prodotti di design hanno, basato solamente sul plus valore percettivo di questi. Ciò mi accade soprattutto di fronte a prodotti che, pur di grandi nomi (stilisti o designer) spesso e volentieri non presentano particolari innovazioni o stili distintivi che ne giustificano il prezzo (a volte si tratta davvero di normali jeans, o normali occhiali, con un logo/nome famoso stampato sopra).
Il principio che anima il marketing è quello di creare vantaggio competitivo, ovvero prodotti non facilmente copiabili; sembra che ciò non valga per alcuni designer e stilisti (in verità soprattutto questi ultimi). Si preferisce investire in comunicazione per ammantare il prodotto di un valore percettivo (e di un vantaggio competitivo) alquanto labile, spesso non supportato da reali qualità del prodotto, il quale risulta di fatto facilmente “clonabile”. Ciò peraltro sembra creare un circolo vizioso che costringe a continuare ad investire in comunicazione per cucire sul prodotto nuovi valori percettivi non basati su qualità reali.
Si crea così un paradosso: quello di dover investire somme ingenti in comunicazione per costruire valori percettivi che giustifichino un certo (alto) prezzo. Non posso fare a meno di chiedermi…e se questi soldi, non dico tutti ma almeno il 50%, venissero investiti su innovazioni di design e di materiali?

Insomma…mi viene da dire che il design è una cosa seria, dove si parla di sperimentazione su occasioni d’uso, funzioni e materiali innovativi…dove la creazione di un prodotto dovrebbe seguire ad un’analisi dei problemi esistenti (un pò come nel marketing); ma sembra che tutto ciò, spesso, non interessi. Ciò che si insegna nelle scuole di design, viene disatteso nell’impresa di moda o di design.
L’approccio più corretto viene portato avanti unicamente da singoli…e visionari, che sono riusciti a costruirsi un nome e quindi possono permettersi di fare certe cose. D’altronde le possibilità per un giovane designer di ragionare fuori dagli schemi impostati, con investimenti milionari (in euro), dai grandi nomi, in particolare della moda, non sono molte.

Esistono anche piccole realtà che ci provano, andando a pescare nella sfera dell’immaginario e della sensibilità sociale le idee per sviluppare prodotti di “design intelligente”. Cito a titolo di esempio, sottolineando che nulla mi lega a loro (quindi non li segnalo per fare pubblicità), il lavoro di Notcom: il loro lavoro usa come bacino la sensibilità sociale che si sviluppa all’interno di movimenti come Criticalmass. Il loro prodotto ha la caratteristica di assorbire le spinte provenienti da istanze esterne al mondo del design e dell’impresa: il metodo è quello di pescare all’esterno del proprio ambito per non diventare inutilmente auto-referenziali. La logica è, si potrebbe dire, bottom-up anziché top-down.

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