E-commerce; non possiamo che migliorare…
Recentemente si sono sentite e lette dichiarzioni ottimistiche e quasi entusiastiche in merito allo stato di salute dell’e-commerce italiano; beh, l’ottimismo è d’obbligo, ma non di certo l’entusiasmo. Chi dice che l’e-commerce italiano è una realtà, chi dice che ‘qualcosa è cambiato’, rischia di rendersi ridicolo; sono frasi ad effetto che possono andare bene per chi di internet non sa nulla (e quindi per tanti in Italia), ma per chi con il web ci lavora o anche solo navigà un po’…beh: non funziona. Riprendo brevemente i dati ABI. Si parla di circa un milione e centomila online shopper nell’ultimo semestre del 2004. Sono veramente dati deludenti. Siamo nel 2005; più di dieci anni dopo la ‘divulgazione’ planetaria di internet. Vediamo di riflettere brevemente su questo dato; si tratta di circa in 5,5 % dei navigatori internet; la percentuale rispetto alla popolazione maggiorenne italiana è ancora più impressionante. Se questi dati sembrassero ancora decenti a qualceduno, possiamo paragonarli a quelli degli U.s.a. Secondo recentissimi dati nel 2005 gli e-shoppers saranno 114 milioni; più del 75% dei navigatori internet (sopra i 14 anni); in sostanza, una persona su due in U.s.a (compreso chi non naviga in internet e considerando solo i maggiornenni), compra online; in U.s.a; uno su due. In italia il 2% ….
Nessun post simile.
25 aprile 2005 @ 10:03
Ciao Federico, devo dirti che non sono molto d’accordo. Qualunque confronto con gli USA non ha senso, su questo non posso che darti ragione. E hai certo ragione di essere deluso anche solo da un confronto con UK, Germania o Francia. Ma d’altro canto è anche vero che sono 2/3 anni che l’e-commerce italiano cresce, pare, del 60% anno su anno. Anche sui tuoi dati ho qualche dubbio. Io sentivo parlare di quasi 2 milioni di acquirenti online durante l’intero anno 2004 - il che vorrebbe dire che il 20% di quelli che usano Internet “quasi per davvero” hanno comprato online (gli altri 10 milioni di utenti che usano Internet, lo usano una volta o due al mese…). Per concludere: secondo me sono deludenti più i dati dell’accesso “reale” a Internet che non quelli dell’e-commerce, perchè chi vi accede “per davvero” poi un po’ compra anche, e chi compra compra parecchio, pare (un noto retailer internazionale tempo fa mi ha detto che sul sito italiano mettono in “vetrina” non i prodotti scontati, ma i prodotti più costosi e su cui hanno maggiori margini).
25 aprile 2005 @ 12:10
Attenzione, mi sembra del tutto incorretto tenere in considerazione solo l’e-commerce quando il web è un medium utilizzato soprattutto per formare le preferenze di acquisto.
La ricerca di Anee http://www.anee.it/ricerche/osservatorio04/default.asp
ha fatto notare che sono sempre di più le persone che usano internet per raccogliere informazioni su acquisti che avranno luogo offline. Sono anni infatti che sto lavorando sulle relazioni tra i new media ed il loro utilizzo nell’intero processo di acquisto come strumento di marketing. Insomma se allarghiamo i nostri orizzonti vedremo che internet è un medium straordinario
25 aprile 2005 @ 14:21
sono io il primo a dire che internet è un medium straordinario (e lo scrivo da 6 anni). Il problema - come abbiamo detto mille volte anche su IMLI - è che anche una sola parte di questo suo potere (che potremmo chiamare brevemente e grossolanamente info-commerce) non è affatto considerato dalle aziende. Ci sono in effetti dati molto più deludenti (delle vendite online), se vediamo come sono realizzati i siti dei top 100 spender italiani; si tratta di siti che - nella maggior parte dei casi - sono stati fatti ‘per dovere’ e senza alcuna vera finalità dalle 4 o 5 società che spillano decine di migliaia di euro per un progetto di usabilty scadente rispetto a una TGP porno fatta in cantina da un sedicenne. Internet sta regalando pubblicità e comunicazione a migliaia di aziende italiane e straniere. Io sono stanco che si regali tutto; purtroppo è nell’interesse di TV, radio e giornali sottostimare il potere immenso di internet. Quando è cominciata l’onda di crisi nel 2001, a prescindere dallo sboom di internet, tutte le società hanno deciso di tagliare i budget sui new media e si sono buttati a capofitto sull’unico strumento che ritengono possa salvare una società in crisi: la TV; beh, i dati parlano chiaro: la gente è sempre più stanca di sorbirsi il marketing invasivo della TV (non è più intelligente è solo più stanca…). I tempi delle facce sorridenti della famiglia unita Carosello sono finiti (poi a letto, bambini…); la pubblicità in TV è sempre più odiata o non considerata. E’ dagli anni dell’introduzione del telecomando e dalla moltiplicazione dei canali che la pubblicità in TV ha sempre meno effetto sul comportamento d’acquisto eppure i prezzi CPM continuano a crescere (i dati di bilancio della ‘nostra’ Mediaset ne sono la prova, proprio mentre il numero di coloro che si spupazzano svariati spot da 30 secondi l’uno dopo l’altro sono sempre di meno - pare che siano solo il 5%…-) e proprio mentre le tecnologie come il DVR (utilizzati dal 6% degli statunitensi)stanno ‘cancellando’ la pubblicità dagli schermi; pare Infatti che il 92% di chi guarda programmi registrati salti a piè pari gli spot pubblicitari (molto meglio di come si faceva col VHS). Adesso i gooroo stanno cercando di capire come fare a fare visualizzare gli spot ai telespettatori. Una delle idee è quella degli spot interattivi (su un medium che la gente usa in maniera squisitamente passiva e per rilassarsi dopo il lavoro)e un’altra è quella dei…Banner TV; visualizzazione di rettangoli pubblicitari all’interno stesso dei programmi (si vedono comunque da più di dieci anni su alcuni canali); se penso che qualche anno fa si sentiva parlare della banda larga come della possibilità di infarcire i siti di spot ‘à la’ televisiva (rich media, interstitial & co.) mi viene da ridere. Il paradosso che viviamo è che la TV sta cercando di modificare i propri canoni pubblicitari rendendo l’advertising meno invasivo (perché quando lo è viene eliminato in blocco dall’utente) e che allo stesso tempo lo strumento che è nato per non essere invasivo non è ancora riconosciuto come un vero medium pubblicitario. Le persone preferiscono un banner (o anche 5) su una pagina web piuttosto che 5 minuti di spot di pannolini, creme antirughe, famiglia Amendola, lavatrici etc etc in mezzo a un film di clint eastwood o a un programma di Gad Lerner; come si fa a non capirlo (e non mi parlate di banner blindness…nessuno va in bagno quando si apre un banner…) Per non parlare della frammentazione dell’audience che sembra essere un problema risolvibile molto più facilmente in Internet che nella TV, dove stiamo già a 500 canali (in U.s.a).
Per non parlare del pricing. In U.s.a i prezzi sono di circa 15, 20 Dollari CPM. Diciamo quindi un centesimo e mezzo per ogni visitatore (al netto delle spese di realizzazione della campagna che incide spesso di un 25%). Circa dieci volte tanto quello che si spende per un pop-up. Per non parlare del fatto che solo una piccola percentuale guarda questi spot; la metà delle persone cambia canale e chi non lo fa, va al bagno, in cucina, a fumare sul balcone o addirittura si collega in Internet (sempre online con la LAN). Stiamo quindi pure di manica larga e diciamo che il 10% dei telespettatori visualizza tutti gli spot. Bene: raggiungere un telespettatore costa 100 volte di più che raggiungere un navigatore. dati del 2004 dimostrano che la pubblcità in TV è profittevole entro un anno solo per il 18% delle aziende che fanno pubblicità; qual è allora la terapia delle agenzie e dei responsabili dei big names? fare ancora più pubblicità e sempre di più in televisione, facendo salire ancora di più i prezzi e quindi rendendo il mezzo sempre meno profittevole. Allo stesso tempo, in Internet perversano i pay per performance, perché internet ‘funziona solo per la direct response’… Siamo in balia di sottosviluppati che non sanno di quello di cui parlano e che non vedono l’ora di chiudere un contratto da 20 milioni per una campagna a tappeto sulla TV e che poi affidano il checking dell’efficienza della campagna a società compiacenti che fanno post-event research affidando CAPI e CATI a gente semianalfabeta che suggerisce le risposte agli intervistati (per non parlare della manipolazione dei dati per fare piacere al cliente; come puoi fargli pagare 30.000 e dirgli che tutti si ricordano del testimonial con la barba ma non del nome della banca?). Con gli istituti di ricerca il cerchio si chiude: “Capo abbiamo fatto spot su tutte le reti nazionali, raggiungendo l’80% degli italiani (quindi di solito anche un 90% di persdone che non sono interessate ai prodotti, come io non sono interessato ai pannolini, ai fissanti per dentiera, ai prestiti anche ai pignorati, alle creme antirughe, alle figurine di Karol il grande e via discorrendo).” Perfetto e la campagna come è andata?”, “Benissimo, secondo l’istituto di ricerca XXX abbiamo aumentato la branda awareness del 20%, la brand equity del 12% etc etc”. Nel 1971 si calcolavano 600 messaggi pubblicitari al giorno e la pubblicità costava un decimo; adesso pare che siamo sui 3.500 messaggi al giorno e i prezzi continuano a salire. A nessuno viene in mente che ’sparare nel mucchio’ è una strategia che non funziona? Cmq la FIAT continua a spendere milioni al mese mettendo un genovese che simula un accento brasiliano e inaugura (Lapo, non il genovese…) caffè alle fiere. Below the line? No: below the brain.
25 aprile 2005 @ 15:21
Caro Federico, ancora una volta mi trovo d’accordo con le tue considerazioni. Condivido anche il pensiero di Maurizio Goetz sul crescente utilizzo del web come fase di pre-acquisto, che poi avviene offline.
Tornando all’advertising su web.
Credo fermamente che il problema della frammentazione sia ampiamente superabile e solo di facciata. La frammentazione sul web è un ostacolo che può essere aggirato con una semplice analisi da parte del merchant e/o dell’agenzia che si occupa per lui della pianificazione : quali sono i portali verticali maggiormente significativi nel settore di volta in volta di riferimento ?
L’investimento, il più delle volte, si ridurrà facilmente a 4-5 competitors che si spartiscono l’utenza in quel mercato, ecco risolto il problema della frammentazione.
Certo, qualcosa di diverso da uno o due competitors di riferimento, come avviene per la tv, ma anche qualcosa di molto più preciso e potente rispetto al mezzo televisivo perché più mirato, più dinamico, più interattivo.
Superato questo primo ostacolo ne restano tuttavia almeno altri due, ben più complessi : la scarsa conoscenza del mezzo da parte degli stessi addetti marketing (attendiamo il cambio generazionale e ne vedremo delle belle…) che compromette in generale un approccio razionale e cosciente al web e preferisce piuttosto delegare a terzi la pianificazione di un mezzo ritenuto spesso “scomodo” e di “difficile comprensione”; e, in secondo luogo, un’interpretazione errata del web da parte degli attuali investitori. Un’interpretazione che più che legarsi ai criteri ed alle regole del mondo pubblicitario, sembra molto più vicina al mondo della rivendita (pay per performance) che con la pubblicità non ha nulla a che fare. (leggi : il webmaster più simile ad un editore o ad un agente di commercio ??).
Il pericolo più grande secondo me è che, in mancanza di una presa di posizione decisa da parte dei maggiori portali verticali di settore, si ripresenti sul web una situazione analoga a quella televisiva dove un oligopolio gestito da due o tre concessionarie si spartisca il bottino al posto dei reali protagonisti.
Il web è diverso dalla televisione per struttura, come potrebbe il mercato pubblicitario di questo nuovo media finire per essere gestito nello stesso modo, spartito alle - ridicole - condizioni stabilite da quelle due o tre concessionaie monopoliste ?
Sono sicuro che non andrà così.
I soggetti protagonisti della rete sono molteplici e differenti, un caleidoscopio che in tv manca e che rappresenta senz’altro la forza della rete rispetto ai 3-4 competitors della tv (il digitale per ora non lo prenderei neppure in considerazione).
Occorre una “rivoluzione” dal basso ed una nuova imposizione di canoni e metodi pubblicitari stabiliti dall’interno del sistema, dai suoi soggetti e non da chi, senza far nulla, pretende perfino di stabilire canoni e modelli assoluti.
Sveglia editori !
26 aprile 2005 @ 09:08
Se devo essere sincero e’ assolutamente improponibile confrontare il mercato USA con quello italiano.
Negli USA dagli anni ‘30 hanno sempre comprato a distanza, in Italia Postalmarket e’ andata in fallimento piu’ volte.
Questo per diversi fattori:
1) la diffidenza italica
2) i problemi logistici
3) la reperibilita’ maggiore dei prodotti sul territorio
Quindi online noi dobbiamo puntare ad una modalita’ diversa di e.com rispetto a quanto avviene oltreoceano e soprattutto ad una modalita’ imprenditoriale diversa rispetto al commercio tradizionale.
1) Se in negozio quando uno entra ha gia’ fiducia nel venditore perche’ lo vede in faccia cosi’ non avviene online, prima di vendere il prodotto dobbiamo conquistare il cliente.
2) I problemi logistici nel B2C sono molti, c’e’ da organizzarsi perche’ il pacco arrivi sano e salvo dove deve arrivare. Presto, bene e possibilmente a costi contenuti. Il destinatario deve essere accompagnato anche nella fase del trasporto.
3) I megamall che vendono tutto ma non hanno nulla a magazzino hanno dimostrato forti limiti, perche’ su ordinazione anche il negozio sottocasa mi procura il prodotto. Il prezzo non e’ fondamentale, la presenza immediata di cio’ che cerco invece e’ maggiore.
Tutto questo basato su 8 anni di e.com, esperienza ovviamente non obbligatoriamente condivisibile.
26 aprile 2005 @ 22:18
concordo con te.
Non paragoniamoci all’usa ma all’Angola.
Per quanto riguarda la diffidenza italica è quella che ha fatto scaricare il dialer a circa 10 milioni di italiani ;)
Ma cmq consoliamoci. Siamo forti sulle cravatte…
p.s.
postalmarket è bene che fallisca. Hai mai visto i prodotti? E hai mai visto il vestito di un americano ai 18 anni?
4 maggio 2005 @ 10:48
Ancora dati confortanti:
L’assemblea dell’e-Committee ha inoltre rappresentato l’occasione per approvare la relazione sulla gestione e per fornire aggiornamenti sulle attività svolte, in particolare quelle promosse con il marchio Bankpass. Il 2004 ha segnato una notevole diffusione di Bankpass Web, il sistema sicuro per i pagamenti online creato dalle banche italiane, offerto oggi da oltre 5.500 siti di e-commerce italiani e che si è arricchito di una nuova funzionalità: dallo scorso anno, infatti, è possibile usare tutte le carte Pagobancomat per i pagamenti online con Bankpass Web. Si tratta di un’opportunità che apre l’e-commerce agli oltre 25 milioni di titolari di carte Pagobancomat. Un’ulteriore novità del 2004 è stata poi la possibilità di usare Bankpass Web in abbinamento con la Carta Nazionale dei Servizi o la Carta di Identità Elettronica per accedere in modo semplice e sicuro ai servizi della Pubblica Amministrazione.
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