Pubblicato ieri su Advertising Age con il titolo “Do some good, create newspaper Ads“, l’articolo si sofferma sul fatto che bisogna far lavorare fotografi, illustratori, pubblicitari…insomma tutta la categoria professionale che vive intorno alla pubblicità classica e quindi resiste al cambiamento…e poi sembra lo stesso articolo sembra dire “chissenefrega” dell’inserzionista che acquista la pubblicità, della sua riluttanza ad investire su un mezzo affollato di pubblicità quale la carta stampata, o della difficoltà di misurare il ROI di tali strumenti; nell’articolo non vi è alcun ripensamento sulla qualità della pubblicità sui giornali e sui problemi che l’affliggono. Nessun dubbio, l’importante è che l’industria vada avanti come è sempre andata.
Nell’articolo ci si interroga anche su quale giornale potrebbe fare reportage da luoghi di guerra o altri servizi importanti senza una fonte certa di redditività (che sarebbe la pubblicità); dal punto di vista contabile non fa una piega, peccato però che il mondo non abbia bisogno di un industria dei giornali, la quale non è iscritta nel DNA del nostro pianeta e delle persone che lo abitano, ma semmai ha bisogno di informazioni, notizie contestualizzate e storie; purtroppo non ricordo più dove, ma ho letto che negli Stati Uniti, da quando c’è la crisi, è aumentato il numero di studenti aspiranti giornalisti. Segno dei tempi; se ci sono storie da raccontare, se la realtà è sfaccettata e merita di essere raccontata, allora succede che aumenta il numero di chi desidera raccontarla, anche a costo di rischiare di doverlo fare gratis. L’altro problema è che i giornali non sempre sono “scuole” su come si devono creare contenuti “di cui il mondo ha bisogno”, ovvero giornalismo d’eccellenza. Non è purtroppo così e inoltre un giornale inteso come “organizzazione” può difficilmente - secondo me - rispondere alle esigenze “vere” di un’informazione fuori dal controllo, aperta e malleabile. La presenza/assenza di tutto questo non è merito/colpa della pubblicità. Da “pubblicitario” vorrei vedere ricondotta la nostra professionae a più realistiche ambizioni, e ad una più realistica percezione di sé e del ruolo che svolge.

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