Twitter plain real
Come sarebbe utile Twitter solo se fosse veramente vero (e utile :)):
Via Howard.
Come sarebbe utile Twitter solo se fosse veramente vero (e utile :)):
Via Howard.
Anche quest’anno dal 27 al 28 maggio avra’ luogo l’EBA Forum, a Milano.
IMlog e’ come sempre media partner dell’evento, giunto alla quarta edizione.
L’evento tocchera’ molte tematiche legate al web ed in particolare al “famigerato” web 2.0.
In particolare credo sara’ interessante la tavola rotonda conclusiva, intitolata “Bufala 2.0″ :)
Sul sito trovate tutti i dettagli, il programma e le modalita’ d’iscrizione.
Chrome Shorts e’ una serie di 11 video che promuovono le feature del browser di Google.
Immagino lo scopo sia avere un po’ piu’ dell’attuale 1.23% quota di mercato.
Un paio sono anche carini:
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in uno strano servizio di Google.
Francamente non mi ricordo come ci sono arrivato, se tramite una mail o semplicemente un link trovato da qualche parte su Google stesso.
Si tratta di Google Profiles.
A prima vista sembra un tentativo di costruire un social network, visto che puoi aggiungere al profilo la tua immagine, il tuo fotostream da Picasa o da Flickr, la tua posizione geografica, il tuo datore di lavoro, etc. etc.
Come tentativo e’ piuttosto blando ma ha molto senso: sarei curioso di vedere un social network Google (no, Orkut non conta, siamo seri…).
L’inventivo offerto, ovvero quello di ricevere gratis i biglietti da visita (solo negli US ahime’), e’ un po’ “old economy”, ma sarebbe interessante capire se in 2-3 anni la gente andra’ in giro con il proprio “biglietto da visita sociale” invece di quello aziendale.
(Come fa gia’ laFra per esempio)
Vediamo come procede. Io intanto sono e saro’ l’unico ad avere il profilo con il mio nome di battesimo (nel senso chesaro’ l’unico Matteo). Sono soddisfazioni :)
Come da prassi, non se ne parla moltissimo. Eppure è ormai in stato avanzato di discussione la cosiddetta “Telecoms Package”: normativa europea destinata a rendere legale che un provider limiti la fruibilità di alcuni servizi Internet, a proprio piacimento. Non propriamente una normativa ad un impatto zero.
Proviamo ad immaginare alcuni scenari derivanti da questa legge:
- Io provider con fantastilioni di utenti ho il mio sito di download di musica; metto un filtro per limitare la banda di accesso ai servizi concorrenti;
- Versione all’italiana: io sono provider e in più ho magari qualche amico in politica (se non addirittura sono in politica io stesso); mi prodigo per limitare la banda dei servizi di qualche altro imprenditore con amici in politica di parte avversa alla mia, o di web tv che propagano idee avverse alle mie. Il tutto in cambio di favori;
- Io provider limito la banda a Facebook, o a Itunes, o a Skype, o a qualsiasi altra cosa, dopodiche chiedo a te - utente - un supplemento mensile per tornare ad avere banda illimitata (creo il problema e fornisco la soluzione, a pagamento).
Questi esempi per dire che è rischioso lasciare che siano imprese dedite al profitto (sul quale non ho nulla da ridire, ma il cui potere va mantenuto comunque sotto controllo per evitare lesioni dei diritti personali e cadute in pessime tentazioni) decidere quali servizi devono essere accessibili tramite la Rete e quali no.
E’ inoltre lesivo del futuro permettere che la Rete non rimanga un bene aperto a chiunque voglia lanciare un servizio. Rischiamo di trovarci nella situazione in cui chi riesce a controllare le reti di trasmissione controlla anche il diritto o meno di fare impresa tramite queste, o semplicemente di esercitare diritti elementari di espressione.
Un articolo pubblicato di recente su Clickz.com (link a fondo post) ritorna sul tema dell’effetto “branding” derivante da campagne SEM, dimostrando con una ricercha svolta insieme MetrixLab quanto già si teorizzava: l’esposizione del brand all’interno di un link sponsorizzato, in un contesto rilevante come quello della ricerca, ha un impatto significativo sulla brand awareness. L’effetto è naturalmente più consistente presso quelle persone che, oltre ad essere esposte all’annuncio testuale, si recano sul sito di destinazione della campagna (clickando); l’effetto benefico è però evidente - sebbene in misura minore - anche con la sola esposizione al messaggio; quest’ultimo benefit è totalmente gratuito per l’inserzionista, dato che si paga solo il click. Qui è visibile, a tal proposito, un grafico ripreso dall’articolo di Clickz.com
Detto questo, nell’articolo c’è un altro grafico, il quale potrebbe stupire la maggior parte degli investitori online: da questo grafico risulta che le forme di online display (banners) hanno efficacia (rapporto tra “branding effect” e “reach”) significativamente inferiore anche di altre forme classiche di “interruption marketing” (in primis la TV).
Il messaggio che vi si può cogliere, a mio parere, è che quando si utilizzano online le forme di interruption marketing (riconduco per semplicità i banner a questa forma, in quanto si tratta comunque di adv nel contesto di contenuti “altri”, i quali sono il vero motivo per cui un utente visita un sito), la loro efficacia è inferiore anche rispetto ad altri mezzi (es. TV); la lezione ulteriore è che i banners sono una forma arcaica di adv, propria di altri mezzi, la quale non rappresenta uno sfruttamento delle potenzialità di Internet e spesso mal si adatta al contesto, con riflessi - negativi - sull’efficacia. Il problema non è nemmeno di impatto visivo (il fatto che molti formati display occupino uno spazio marginale sulla pagina) ma è di 1-contesto e 2-rilevanza: la ricerca pubblicata su Clickz.com dimostra infatti quanto un semplice sponsored link è efficace anche per fare branding, sicuramente grazie al fatto di essere 1-contestualizzato e 2-attinente a quello che l’utente sta facendo nel momento in cui rimane esposto al messaggio.
Ora, sappiamo bene che l’online display assorbe una discreta quota degli investimenti in pubblicità online (38% circa degli investimenti previsti nel 2009, secondo IAB), ma questi pensieri mi portano a pensare che anche il display, almeno nelle sue forme standard, dovrebbe essere acquistato principalmente a performance, in funzione di un risultato misurabile (quantomeno il banale click)…proprio perché l’efficacia derivante dalla semplice esposizioni di “banners” sembra non essere così consistente; tanto vale dare finalmente seguito a quello di cui si parlava oltre 10 anni fa tra aspiranti professionisti del settore, quando il mercato era ancora piccolissimo e quindi l’approccio ai problemi era più teorico che pratico, ma era anche di buon senso e non teneva conto dei retaggi del passato, delle consuetudini all’acquisto “costo per mille” o di altre spinte “conservatrici”; online si può e deve investire in cambio di un risultato realmente misurabile. Gli strumento lo permettono.
Nota conclusiva: a mio parere, attenzione comunque ad applicare all’online advertising le ricerche che misurano il “branding effect” pre/post esposizione. Siamo d’accordo che questa sia una misurazione sulla quale i brand manager si basano per le loro scelte future (e se dimostriamo che anche l’online adv funziona in questo senso, possiamo portare online maggiori investimenti), ma il parallelo tra brand awareness e ROI (vendite) non è sempre scontato. Sarebbe bello, e utile, che la misurazione del ROI, e non di altri indicatori più o meno vaghi, sia il punto di partenza per risalire alle forme di comunicazione da utilizzare e sperimentare.
Per concludere, qui si trova l’articolo completo da cui sono partito per scrivere questo post. Non ho ripubblicato i grafici (limitandomi ai link) perché le policy di Clickz.com non permettono la riproduzione (avrei potuto chiedere il consenso, ma non ne valeva la pena e poi non sono molto d’accordo con il rendere i loro articoli del tutto non riproducibili; tanto per far sorridere un po’, nelle policy dell’editore si legge - in riferimento agli articoli online - quanto segue “You may [..] print individual pages on paper (but not photocopy them)”; fantastico.
Negli ultimi tempi si fa un gran discutere di quale valore e ruolo può avere un fenomeno come i social network per i brand, anche per i più importanti, i big spender tradizionali; trovo che in questo quadro l’idea di Smart di sponsorizzare un servizio di trasformazione dell’URL, molto utile per gli utenti di Twitter e di altri social network, sia decisamente un passo nella giusta direzione.
L’idea è semplice, la realizzazione banale, la tecnologia dietro praticamente inesistente, ma c’è tutta la brand equity di Smart che ha inteso in questo caso come più che comunicare valori ed elementi aspirazionali il suo ruolo in uno scenario di consumatori “abilitati” dalla tecnologia sia fornire soluzioni e diventare facilitatori.
Well Done!